
MALATTIA E DISABILITÀ MAESTRE DI VITA
“Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai… Se non fossimo qualcosa di più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto se stesso, ma anche il punto unico, particolarissimo, dove i fenomeni del mondo si incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò, la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina; perciò ogni uomo fintanto che vive e in qualche modo adempie il volere della natura, è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo”. Da Hermann Hesse, scrittore tedesco premio Nobel nel 1946, “Demian”.
Mi sono sempre piaciute queste parole perché continuano a porre interrogativi sull’uomo, quella creatura, maschio e femmina, che Dio creò “a sua immagine”. Soprattutto quando affronto temi che a mio avviso ci aiutano a dare un significato alla vita. Disabilità e malattia sono spesso viste come un’ombra minacciosa, un qualcosa da temere perché ci ricordano la fragilità della nostra esistenza e il mistero della morte. Ma tutte queste realtà, malattia, morte, il tempo che passa, non sono delle nemiche, sono parti del cammino umano, elementi della nostra esistenza. Su di esse dovremmo riflettere e averle sempre presenti, di più, accoglierle davvero e dare così il giusto senso alla nostra esistenza.
Viviamo in una società che esalta la perfezione, dove non c’è spazio per la vulnerabilità o la stanchezza. A volte, a chi vive la disabilità o la malattia non curabile, si chiede di essere un personaggio straordinario, un guerriero che vince e sconfigge. Questo modo di vivere la vita ci porta a combattere contro una parte di noi stessi, trasformando il corpo in un campo di battaglia e il percorso di cura in una guerra. Anche il linguaggio che usiamo riflette il modo in cui vediamo la vita e le esperienze umane. Parlare di tumore in termini di battaglie, vittorie o sconfitte come per esempio: “era un lottatore”, “ha perso la sua battaglia”, “ha vinto la guerra”, rischia di ridurre la complessità di un percorso umano a uno scontro bellico. Questo tipo di linguaggio, e i conseguenti comportamenti, non dovrebbe mai essere imposto a chi vive la sofferenza perché ognuno affronta il proprio cammino con modalità uniche e personali, e solo chi lo percorre ha il diritto di dare un significato alla propria esperienza. Non sta a noi immaginare guerre dove non ci sono. È vero perché non tutti vivono la disabilità o una grave malattia come una battaglia. Per molti, questa condizione diventa un viaggio interiore, un’occasione per scoprire parti di sé prima ignorate. C’è chi, attraverso questa esperienza, ha trovato nuovi modi di donarsi agli altri, chi ha imparato ad accettarsi più profondamente, chi l’ha accolta senza identificarsi come vittima o guerriero. Ogni percorso è unico, e solo chi lo vive sa come definirlo. Sono convinto che ciascuno di noi è prima di tutto una persona, indipendentemente dal fatto che abbia una disabilità, una malattia inguaribile, una sindrome o qualsiasi altra condizione. Non credo molto che etichette come “diversamente abile” o “abile in modo diverso” possano racchiudere la complessità di un essere umano. Ogni persona è unica, con talenti, capacità e anche limiti, come tutti noi. Nessuna condizione può definire l’essenza di una persona, che è sempre molto più grande delle singole esperienze o delle sfide che affronta. Per tutte queste cose ritengo sbagliati sia i tentativi di addolcire la pillola, tipo “diversamente abile”, espressione veramente terribile, sia etichette come “disabile”, che marchiano indelebilmente una persona.
Una persona è tante cose. Una persona sulla sedia a rotelle o a letto non è solo “disabile”: non può camminare, è vero, ma può fare molte altre cose, come studiare, lavorare, amare anche solo con gli occhi. La disabilità e la malattia vanno accolte come una maestra, come un’occasione per approfondire la conoscenza di noi stessi e degli altri. Non si tratta di vincere o perdere, ma di trasformare ciò che incontriamo lungo il cammino in una fonte di crescita interiore, accettando ogni esperienza come parte del nostro viaggio unico e sacro.
Marco Bracco
Volontario AVAPO Mestre